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Intelligenza collettivaMartedì 15 gennaio 2008, ore 20,30Una folla in fuga, la risposta degli investitori a una notizia economica, una squadra di calcio che costruisce un'azione di gioco, il funzionamento di un formicaio... cos'hanno in comune questi fenomeni? Alcuni comportamenti collettivi possono essere definiti intelligenti? Il concetto di intelligenza collettiva è usato sempre più spesso sia in biologia e neuroscienze che in economia e sociologia, eppure la sua definizione e il suo significato rimangono ancora vaghi. Per discuterne abbiamo invitato due ricercatori di STARFLAG, un progetto di ricerca europeo che raccoglie lo sforzo di numerosi ricercatori interessati ai comportamenti collettivi degli animali, in particolare degli uccelli. Il progetto coinvolge biologi, fisici, matematici ed economisti, che hanno utilizzato come modello di studio gli stormi, cercando di ricavarne informazioni potenzialmente estendibili a campi molto diversi tra loro. Ospiti del caffè scienza saranno il fisico Andrea Cavagna e la biologa Daniela Santucci. Articoli di commento: Uccelli e puntini Andrea CavagnaAndrea Cavagna è ricercatore presso il Centro di Meccanica Statistica e Complessità (SMC) dell'INFM-CNR di Roma. Ha lavorato presso il Dipartimento di Fisica Teorica dell'Università di Oxford e presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia dell'Università di Manchester. I suoi interessi di ricerca vanno dai sistemi vetrosi ai comportamenti collettivi in biologia. E' vice-coordinatore europeo del progetto STARFLAG.Daniela SantucciDaniela Santucci è ricercatrice presso il Reparto di Neuroscienze comportamentali dell'Istituto Superiore di Sanità dove svolge ricerche su temi di psicobiologia dello sviluppo e di biologia spaziale. Ha lavorato alla Queen's University di Belfast e all'University of California di San Francisco. Collabora saltuariamente con alcuni quotidiani e riviste quali il "Manifesto", "L'Indice dei Libri del Mese", "Lo Straniero".Lettureda Italo Calvino, PalomarC'è una cosa straordinaria da vedere a Roma in questa fine d'autunno ed è il cielo gremito d'uccelli. Il terrazzo del signor Palomar è un buon posto d'osservazione, da cui lo sguardo spazia sopra i tetti per un'ampia cerchia d'orizzonte. Di questi uccelli, egli sa solo quel che ha sentito dire in giro: sono storni che si raccolgono a centinaia di migliaia, provenienti dal Nord, in attesa di partire tutti insieme per le coste dell'Africa. Di notte dormono sugli alberi della città, e chi parcheggia la macchina sul Lungotevere, al mattino, è obbigato a lavarla da cima a fondo. Dove vadano durante il giorno, che funzione abbia nella strategia della migrazione questa sosta prolungata in una città, cosa significhino per loro questi immensi raduni serali, questi caroselli aerei come per una grande manovra o una parata, il signor Palomar non è riuscito ancora a capirlo. Le spiegazioni che si dànno sono tutte un po' dubbiose, condizionate da ipotesi, oscillanti tra varie alternative; ed è naturale sia così, trattandosi di voci che passano di bocca in bocca, ma si ha l'impressione che anche la scienza che dovrebbe confermarle o smentirle sia incerta, approssimativa. Stando così le cose, il signor Palomar ha deciso di limitarsi a guardare, a fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere, tenendosi alle idee immediate che gli suggerisce ciò che vede. Nell'aria viola del tramonto egli guarda affiorare da una parte del cielo un pulviscolo minutissimo, una nuvola d'ali che volano. S'accorge che sono migliaia e migliaia: la cupola del cielo ne è invasa. Quella che fin qui gli era sembrata un'immensità tranquilla e vuota si rivela tutta percorsa da presenze rapidissime e leggere. [...] Se si sofferma per qualche minuto a osservare la disposizione degli uccelli uno in rapporto all'altro, il signor Palomar si sente preso in una trama la cui continuità si estende uniforme e senza brecce, come se anche lui facesse parte di questo corpo in movimento composto di centinaia e centinaia di corpi staccati ma il cui insieme costituisce un oggetto unitario, come una nuvola o una colonna di fumo o uno zampillo, qualcosa cioè che pur nella fluidità della sostanza raggiunge una sua solidità nella forma. Ma basta che egli si metta a seguire con lo sguardo un singolo pennuto perché la dissociazione degli elementi riprenda il sopravvento ed ecco che la corrente da cui si sentiva trasportato, la rete da cui si sentiva sostenuto si dissolvono e l'effetto è quello d'una vertigine che lo prende alla bocca dello stomaco. [...] Finché l'ultimo chiarore del cielo scompare, una marea di buio sale dal fondo delle vie a sommergere l'arcipelago di tegole e cupole e terrazze e attici e altane e campanili; e la sospensione d'ali nere degli invasori celesti precipita fino a confondersi col greve volo degli stolidi scacazzanti piccioni cittadini. da James Surowiecki, L'intelligenza della folla Nessuno ha mai prestato più attenzione alle strade e ai marciapiedi di New York di William H. Whyte. Nel 1969 Whyte, autore del classico della sociologia "L'uomo dell'organizzazione", ottenne un finanziamento per condurre quello che poi è diventato noto come Street Life Project. Così, per buona parte dei sedici anni successivi, osservò i newyorchesi mentre si spostavano in giro per la città. Usando videoregistratori time-lapse e taccuini per appunti, Whyte e la sua equipe di giovani ricercatori raccolsero uno straordinario archivio di materiale che sarebbe servito a capire in che modo la gente sfruttava i parchi, come camminava lungo i marciapiedi affollati e come si comportava nel traffico intenso. La ricerca di Whyte che alla fine fu pubblicata con il titolo di "City", era piena di affascinanti idee sull'architettura, sul design urbano e sull'importanza di mantenere le strade piene di vita. Era anche un'apologia del pedone. "Il pedone è un essere sociale", scriveva Whyte. "E' anche un'unità di trasporto meravigliosamente complessa ed efficiente". Whyte dimostrò che i pedoni, anche su un marciapiede affollato, erano capaci di spostarsi in modo sorprendentemente veloce senza scontrarsi con i loro vicini. Anzi, spesso davano il meglio di sé proprio quando la strada era più affollata. "Il buon pedone", spiegava, "di solito cammina leggermente spostato di lato, per poter vedere sopra la spalla della persona davanti a lui. Da questa posizione ha più scelta, e la persona che ha davanti in un certo senso lo protegge da qualsiasi interferenza". I newyorchesi erano dei maestri nell'arte del "passaggio semplice", che consisteva nel rallentare leggermente per evitare la collisione con un pedone che proveniva dalla direzione opposta. Ai passaggi pedonali si raggruppavano per difendersi dal traffico. In genere, scriveva Whyte, "camminano velocemente e in modo intelligente. Danno e prendono, sono al tempo stesso aggressivi e accomodanti. Si lanciano segnali sulle proprie intenzioni di spostamento con movimenti impercettibili". Per questo, concludeva l'autore, "la scena è piena di movimento e colore: pedoni che camminano rapidamente, lentamente, salgono scalini, si incrociano fra loro, accelerano e rallentano in sintonia con gli altri. E' uno spettacolo affascinante". Quello che Whyte aveva visto, e che ha fatto vedere anche a noi, era la bellezza di una folla ben coordinata, in cui tanti piccoli, impercettibili aggiustamenti nella velocità, nel ritmo e nella direzione danno origine a un flusso relativamente scorrevole e ordinato. I pedoni anticipano continuamente il comportamento degli altri; nessuno gli dice dove, quando o come camminare. Decidono da soli cosa fare sulla base di ciò che immaginano faranno gli altri. E di solito, in un modo o in un altro, fila tutto liscio. [...] Nel 1991, l'hacker finlandese Linus Torvalds creò la sua versione personale del sistema operativo Unix, che chiamò Linux. Poi rese pubblico il suo codice, in modo che tutti - o quanto meno chi era in grado di capire un codice informatico - potessero vedere quello che aveva fatto. Ma, soprattutto, allegò un messaggio in cui diceva: "Se non avete problemi a distribuire gratuitamente le vostre idee, fatemelo sapere, così potrò aggiungerle al sistema". Fu una decisione a dir poco felice. Come si legge in una delle tante storie di Linux, "delle prime dieci persone che scaricarono il sistema, cinque gli mandarono correzioni di errori, proposte di miglioramento del codice e nuove aggiunte". Nel corso del tempo, il metodo finì per istituzionalizzarsi. Migliaia di programmatori contribuirono gratuitamente a correggere grandi e piccoli errori del sistema operativo, rendendolo sempre più sicuro e affidabile. A differenza di Windows, che è di proprietà della Microsoft e al quale lavorano i suoi dipendenti, Linux non è di nessuno. Quando c'è un problema di funzionamento, viene risolto solo se qualcuno propone una buona soluzione. Non c'è nessun capo che dia disposizioni, nessun organigramma che stabilisca le responsabilità di ciascuno. Ognuno si occupa di quello che gli interessa e ignora tutto il resto. Potrebbe sembrare un modo piuttosto casuale di risolvere i problemi, e in effetti lo è. Ma, almeno finora, ha funzionato benissimo, facendo di Linux l'unico vero concorrente della Microsoft. Linux è chiaramente un sistema decentrato, perché non ha nessuna organizzazione formale alle spalle e i suoi collaboratori vivono in tutto il mondo. Quello che il decentramento garantisce a Linux è la diversità. Nel modello di azienda tradizionale, la direzione assume i migliori dipendenti a disposizione, li paga per lavorare a tempo pieno, in genere dà loro qualche indicazione sui problemi di cui si devono occupare, e spera che tutto vada bene. Non è un modello sbagliato. Presenta il grande vantaggio di facilitare la mobilitazione del personale quando bisogna risolvere un problema particolare e consente alle aziende di diventare molto più brave in quello che sanno già fare. Ma per forza di cose limita il numero di soluzioni che una società può trovare, sia per motivi matematici (una società ha solo un certo numero di dipendenti, che dispongono solo di una certa quantità di tempo) sia per motivi organizzativi e di politica burocratica. Linux, invece, non si preoccupa di nessuna di queste cose. Potrà sembrare strano, ma a quanto pare, c'è un grande numero di programmatori disposti a dare il loro contributo per migliorare il sistema. E, di conseguenza, la gamma di possibili soluzioni sarà sempre enorme. La varietà e la quantità di programmatori sono tali che, qualunque sia il problema, prima o poi qualcuno lo risolverà. E, per lo stesso motivo, se c'è un errore, qualcuno se ne accorgerà. [...] Proprio come una colonia di api, Linux manda in ricognizione molte foraggiatrici e presume che una di loro troverà la strada più breve per raggiungere il prato dove si trovano i fiori. E' senza dubbio un metodo meno efficace che cercare di calcolare la strada più breve o scegliere l'ape più in gamba per affidarle l'incarico: se centinaia o migliaia di programmatori passano ore a cercare una soluzione che solo pochi di loro troveranno, si sta sprecando del tempo che potrebbe essere usato in altro modo. Eppure [...] l'apparente spreco di energie di Linux è la sua forza (un tipo di forza su cui le aziende che lavorano per profitto non possono, per fortuna o sfortuna, fare conto). E' possibile lasciar sbocciare migliaia di fiori per poi scegliere quello che profuma di più. torna alla pagina dei caffè scienza |
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